pandemia

Con il decreto dell’11 dicembre 2021 del MEF sono state affrontate varie questioni relative al tema degli aiuti di stato concessi durante il periodo dell’emergenza pandemica

L’approvazione, ormai prossima, da parte dell’Agenzia delle Entrate dell’autodichiarazione degli Aiuti di Stato fruiti durante l’emergenza sanitaria impone alle imprese di verificare se siano stati rispettati i massimali e le condizioni previste dal Quadro temporaneo. 

Invero, le imprese che durante l’acuirsi della pandemia hanno fruito di aiuti anti-Covid saranno oggetto di controlli specifici per verificare il rispetto della normativa comunitaria e l’osservanza delle condizioni e dei limiti stabiliti dal decreto del MEF dell’11 dicembre 2021. Al riguardo, i soggetti beneficiari dovranno presentare una dichiarazione sostitutiva di un atto di notorietà in cui si attesta il rispetto dei requisiti in questione, in ossequio a quanto previsto dal suddetto decreto.  

Tuttavia, risultano sussistere ancora perplessità circa la predisposizione della documentazione. In particolare, il citato decreto non chiarisce alcunché circa la cumulabilità dei massimali previsti nelle suddette due sezioni. È necessario in ogni caso rispettare la tassatività delle misure elencate all’interno del comma 13 dell’articolo 1 del decreto Sostegni. 

Un’altra importante questione irrisolta riguarda la possibilità per l’impresa beneficiaria di utilizzare in maniera alternativa per la medesima misura sia la sezione 3.1 sia la sezione 3.12, sussistendone i requisiti. In questo modo è possibile ripartire la somma dell’aiuto, dividendola in quote, tra le due diverse sezioni, sussistendo in ambo i casi i requisiti previsti. Peraltro, risulta dubbia la definizione dell’esatto momento in cui è avvenuta la concessione dell’aiuto nei confronti del soggetto beneficiario: laddove tale data non venga determinata in maniera precisa, potrebbero sorgere delle problematiche relative non solo alla presentazione dell’autodichiarazione, ma anche al calcolo del “periodo ammissibile” per la sezione 3.12, dovendo molte imprese restituire gli aiuti. A questo proposito, il decreto, richiamando la decisione della Commissione europea del 15 ottobre 2021, conferma come la data rilevante da prendere in considerazione sia quella in cui l’aiuto è stato messo a disposizione dell’impresa beneficiaria. Tuttavia, a seconda della diversa misura bisognerà tenere presente: 

  • la data di approvazione della domanda di aiuto, nel caso specifico in cui la concessione della misura sia subordinata a tale domanda e alla sua approvazione; 
  • la data di presentazione della dichiarazione dei redditi (purché effettuata entro il 31 dicembre 2021) o la data di compensazione o la data di maturazione. Il decreto nulla dice riguardo i crediti che possono essere oggetto di cessione; 
  • negli altri casi, la data di entrata in vigore della normativa (esenzione Imu o Irap). 

Infine, occorre precisare che l’art. 4 del decreto in questione stabilisce che, in caso di splafonamento dai massimali, l’importo dell’aiuto eccedente deve essere spontaneamente restituito da parte del soggetto beneficiario. Il rischio di superamento dei limiti imposti dal Quadro temporaneo deve essere parametrato non sulla singola impresa, ma sull’intera “unità economica”, evitando così che un gruppo societario possa beneficiare di più aiuti Covid.  

Per il recupero delle eccedenze in caso di splafonamento non sono previste sanzioni ma solo il calcolo degli interessi secondo il regolamento 794/2004. Bisogna precisare come secondo il medesimo articolo, la restituzione possa avvenire anche con una compensazione rispetto ad aiuti “successivamente ricevuti dalla medesima impresa”.  

Ne consegue che laddove l’impresa beneficiaria superi il limite stabilito nel corso del primo periodo (fino al 27 gennaio 2021) di vigenza della sezione 3.1, l’eventuale splafonamento potrebbe in maniera automatica trovare capienza automatica con il massimale della medesima sezione non interamente coperto al 31 dicembre 2022.  

tax2

La Corte di Cassazione chiarisce definitivamente i dubbi sulla tassazione ai fini dell’imposta di donazione ex art.56 del T.U.S.D.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 11832 del 12 aprile 2022, affronta il tema delle liberalità indirette, nell’ambito della imposta di donazione. Secondo la Corte, la liberalità indiretta rientra nell’ampia nozione di “trasferimenti gratuiti” che il legislatore tributario ha ritenuto opportuno impiegare ai fini dell’individuazione del presupposto impositivo dell’imposta.  

La sentenza in esame riveste una notevole importanza, in quanto, per la prima volta, i Giudici di legittimità hanno affrontato in modo sistematico il tema della tassazione delle donazioni indirette.  

Al riguardo, si precisa che per donazioni indirette devono intendersi quegli atti di liberalità che, pur non essendo attuati con lo schema contrattuale della donazione, realizzano gli effetti propri della donazione, ovvero l’impoverimento di un soggetto e l’arricchimento di un altro. 

Tuttavia, i Giudici di legittimità hanno statuito che le liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione non devono essere ricomprese nel perimetro di applicazione dell’imposta di donazione nell’ipotesi in cui risultino collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti      immobiliari ovvero il trasferimento di aziende o di rami di azienda.  

Infatti, per questi atti è già prevista l’applicazione dell’imposta di registro, in misura proporzionale, o dell’Iva.  

Riguardo questa ipotesi, disattendendo la sua precedente giurisprudenza, la Cassazione sostiene che il “collegamento” che rende non tassabile la donazione indiretta non deve necessariamente derivare da una dichiarazione resa dal contribuente nell’atto collegato alla donazione indiretta e inerente all’effettuazione della donazione stessa, ma può essere desunto anche sulla base di elementi oggettivi. 

Le altre liberalità indirette, quelle cioè non risultanti espressamente in atti soggetti a registrazione, confluiscono nella fattispecie delle liberalità indirette non formalizzate, risultando pertanto accertabili e tassabili alle condizioni previste dall’art. 56-bis del D.Lgs. n. 346/1990. 

L’art. 56-bis (rubricato “Accertamento delle liberalità indirette), disciplinando la tassazione delle liberalità diverse dalla donazione “formale”, enuncia due principi: 

  • la facoltà del contribuente di registrare “volontariamente” le liberalità indirette (art. 56-bis, comma 3, T.U.S.D.); 
  • il potere dell’Amministrazione di accertare le liberalità indirette solo al ricorrere di due presupposti (art. 56-bis, comma 1, T.U.S.D.): 

a. “quando l’esistenza” della liberalità indiretta “risulti da dichiarazioni rese dall’interessato nell’ambito di procedimenti diretti all’accertamento di tributi”; 

b. “quando le liberalità abbiano determinato, da sole o unitamente a quelle già effettuate nei confronti del medesimo beneficiario, un incremento patrimoniale superiore all’importo di 350 milioni di lire” (ora euro 180.760). 

Se, dunque, il potere dell’Amministrazione di accertare donazioni “indirette” si ha solo al ricorrere dei predetti due presupposti, pare potersi concludere che non vi sia un obbligo generalizzato di registrare tutte le donazioni “indirette” risultanti (anche per via di enunciazione) da atti soggetti a registrazione, ma quest’obbligo si pone solo per le restanti ipotesi di donazioni “indirette” identificate dall’art. 56-bis. 

In conclusione, dalla decisione in esame si deve dedurre che la donazione indiretta (ad esempio il caso del bonifico del genitore a favore del figlio che compra un appartamento) non può essere sottoposta a tassazione in quanto tale, ma solo quando il contribuente intenda farlo o si presenti la possibilità di doverla ammettere nell’ambito di una possibile futura procedura di accertamento. 

economia

Con la conversione del Decreto Sostegni-ter, il Legislatore estende la facoltà di sospendere gli ammortamenti anche al bilancio 2022

La possibilità di sospendere gli ammortamenti sul bilancio civilistico è nata come misura di contenimento delle conseguenze derivanti dall’emergenza sanitaria e nel contesto delle misure di contrasto adottate. 

Al riguardo, la misura, promulgata con il DL 104/2020 (c.d. Decreto Agosto), in origine era limitata al solo esercizio 2020 ed assumeva la forma di norma in deroga con l’obiettivo di limitare l’impatto della contingenza sui bilanci civilistici. 

L’articolo 5-bis del decreto Sostegni-ter (Decreto Legge n.4 del 2022), convertito in legge il 24 Marzo, ha riproposto non solo per il 2021, ma anche per il 2022 la possibilità di sospendere la contabilizzazione, in tutto o in parte, dell’ammortamento dei beni immateriali e materiali  

iscritti in bilancio, nonostante la norma sia stata non poco criticata per la sua capacità di fare assumere forma creativa e poco veritiera alla situazione patrimoniale e finanziaria della società e al risultato economico dell’esercizio. 

A differenza di quanto precedentemente stabilito dalla Legge n. 234 del 30 dicembre 2021 (Legge di Bilancio 2022), potranno beneficiare della proroga non solo coloro i quali, nel bilancio 2020, hanno già usufruito della sospensione per il 100% degli ammortamenti, ma anche e soprattutto quei soggetti che nel 2020 non hanno integralmente (ma solo in misura parziale) contabilizzato l’ammortamento dei beni materiali e immateriali iscritti in bilancio. 

Rimangono, peraltro, ferme (così come nelle precedenti modifiche normative) le modalità applicative della norma derogatoria, con la conseguenza che continuano a essere previsti l’obbligo di destinare a una riserva indisponibile utili di ammontare corrispondente alla quota di ammortamento non effettuata e specifici obblighi informativi nella nota integrativa. 

A questo proposito, la nota integrativa deve indicare: 

  • quali immobilizzazioni ed in quale misura non sono stati contabilizzati gli ammortamenti; 
  • le ragioni che hanno indotto ad avvalersi della deroga; 
  • l’impatto economico e patrimoniale della deroga. 

Dal punto di vista contabile le regole applicabili sono quelle contenute all’interno del documento interpretativo Oic 9/2021. Pertanto, sono esclusi dal perimetro normativo coloro che redigono il bilancio non adottando le regole del codice civile ed i principi contabili nazionali. 

Prevedendo che gli effetti negativi della pandemia e della più recente situazione causata dalla guerra in Ucraina spingeranno ad un utilizzo integrale della sospensione, secondo l’OIC ove l’ammortamento civilistico fosse stato interamente sospeso, la quota di ammortamento dell’esercizio successivo sarebbe stata pari al rapporto tra il valore residuo ammortizzabile e la durata utile aggiornata. Quanto appena detto non determinerebbe modifiche di valore della quota di ammortamento, ma semplicemente un allungamento della durata utile del bene. 

Infine, bisogna anche evidenziare come per le annualità 2021 e 2022 non è stata più riproposta la deroga sul presupposto della continuità aziendale. Infatti, durante la fase più acuta dell’emergenza pandemica era stata prevista, al ricorrere di determinate condizioni, la possibilità per le imprese OIC di redigere il bilancio senza che i valori iscritti siano considerati nel presupposto che l’azienda prosegua la sua attività nel suo normale corso, senza che vi sia né l’intenzione né la necessità di porre l’azienda in liquidazione o di cessare l’attività ovvero di assoggettarla a procedure concorsuali.  

La mancata riproposizione di questa deroga impone delle considerazioni. Infatti, nel caso limite in cui un’impresa non abbia contabilizzato integralmente gli ammortamenti per due o tre esercizi dovrebbe, probabilmente, affrontare il problema della continuità e motivare, non senza difficoltà, nella nota integrativa la sussistenza della stessa. 

esterovestizione

L’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 27 del 17 gennaio 2022, ha ribadito come la localizzazione all’estero delle strutture societarie debba essere sempre effettiva e genuina.  

La disciplina dell’esterovestizione consente all’Amministrazione Finanziaria di presumere (salvo prova contraria) l’esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono direttamente partecipazioni di controllo in società di capitali ed enti commerciali residenti in Italia, quando, alternativamente sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o sono amministrati da un  

consiglio di amministrazione o altro organo di gestione equivalente, formato in prevalenza da membri residenti nel territorio dello Stato.  

Nel caso di specie una società estera Alfa era non solo amministrata da due persone fisiche, di cui una residente in Italia e l’altra all’estero, ma anche controllata per il 51% da una società italiana. 

L’art. 73, comma 5-bis, TUIR stabilisce che, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, c.c., nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa: 

  • sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, del c.c., da soggetti residenti nel territorio dello Stato; 
  • sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato. 

Pertanto, la presunzione relativa dell’esterovestizione opera nel momento in cui la società estera, controllante una società italiana, sia a sua volta controllata o amministrata da soggetti italiani.  

L’Amministrazione Finanziaria sottolinea come il concetto di esterovestizione vada distinto in maniera netta da quello di residenza fiscale di una società ex comma 3 art. 73 del TUIR. Infatti, quest’ultima fattispecie sussiste quando la società abbia nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta o l’oggetto principale la sede legale o la sede dell’amministrazione 

Conseguentemente, potrebbero sussistere senza difficoltà ipotesi in cui una società, non esterovestita, debba essere considerata dal fisco come italiana, essendo solo fittiziamente localizzata all’estero. 

Nel caso di una società italiana, controllata da una holding estera, al fine di determinare con precisione l’effettiva residenza fiscale, sarà necessario effettuare un accurato controllo sulla catena partecipativa e sulla residenza dei componenti dell’organo amministrativo. 

Occorre aggiungere che, recentemente, con la sentenza n. 4463/2022, anche la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di esterovestizione.  

I Giudici di legittimità, confermando il giudizio della CTR Lombardia, hanno affermato come sia onere dell’Agenzia delle Entrate, essendo l’art. 73 comma 5-bis del TUIR una norma avente finalità antielusiva, dimostrare che il fine principale del contribuente sia stato quello di ottenere un indebito vantaggio fiscale.  

In sostanza, sul contribuente non grava alcun tipo di impedimento circa la possibilità di scegliere la miglior soluzione per ottenere un maggior beneficio: una localizzazione straniera può essere oggetto di violazione della normativa nazionale solo qualora risulti essere puramente artificiale e fittizia, in quanto priva di sostanza economica, avendo come unico scopo quello di ottenere un trattamento fiscale di favore.  

lending

L’Agenzia delle Entrate chiarisce come i finanziamenti Peer 2 Peer lending, effettuati su piattaforme gestite da istituti di pagamento non iscritti nell’albo della Banca d’Italia, devono essere indicati nel quadro RW

Per P2P lending (peer to peer lending, social lending o prestiti tra privati), si intende una tipologia di prestito erogato direttamente tra soggetti privati mediante l’impiego di apposite piattaforme. Tali sistemi permettono di far incontrare la domanda dei soggetti in cerca di fondi con l’offerta degli investitori, senza dover passare attraverso il canale bancario.  

Di recente l’Agenzia delle Entrate ha chiarito con la risposta ad interpello del 24/03/2022 che eventuali interessi ottenuti dai finanziatori italiani mediante prestiti concessi impiegando queste piattaforme, gestite da istituti di pagamento esteri, concorrono a formare il reddito complessivo da assoggettare ad IRPEF in sede di dichiarazione annuale dei redditi 

Inoltre, dal momento che l’utilizzo di queste piattaforme implica la titolarità di conti di pagamento presso Istituti di pagamento esteri, gli interessi in questione devono essere indicati nel quadro RW, indipendentemente dall’eventualità che la piattaforma risulti essere italiana od estera o che il beneficiario del finanziamento abbia nazionalità italiana o straniera. 

In particolare, l’Amministrazione Finanziaria ha ribadito come il comma 43 della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) ha inserito la lettera d-bis) al comma 1 dell’articolo 44 del T.U.I.R., prevedendo che costituiscono redditi di capitale “i proventi derivanti da prestiti erogati per il tramite di piattaforme di prestiti per soggetti finanziatori non professionali (piattaforme di Peer to Peer Lending) gestite da società iscritte all’albo degli intermediari finanziari di cui all’articolo 106 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 [n.d.r. TUB], o da istituti di pagamento rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 114 del decreto legislativo n. 385 del 1993, autorizzati dalla Banca d’Italia”.  

Il successivo comma 44, inoltre, dispone che i predetti gestori “operano una ritenuta alla fonte a titolo di imposta sui redditi di capitale corrisposti a persone fisiche con l’aliquota prevista dall’articolo 26, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”. 

Detta ritenuta è attualmente stabilita nella misura del 26 per cento. 

Ai fini dell’applicazione della ritenuta a titolo d’imposta sui proventi derivanti da investimenti su piattaforme di P2P Lending rilevano, in sostanza, le seguenti due condizioni: 

  • la natura del soggetto finanziatore, che deve essere esclusivamente una persona fisica al di fuori dell’esercizio di una attività d’impresa; 

 

  • la qualifica del gestore della piattaforma, che deve essere un intermediario finanziario iscritto all’albo o un istituto di pagamento ai sensi della normativa prevista, rispettivamente, dagli articoli 106 e 114 del TUB, autorizzato dalla Banca d’Italia. 

Se l’istituto di pagamento che gestisce la piattaforma non è iscritto all’albo degli intermediari finanziari presso la Banca d’Italia non è, quindi, autorizzato ad applicare la ritenuta d’acconto sugli interessi corrisposti a persone fisiche. 

Pertanto, in tal caso, i proventi derivanti dai predetti investimenti in P2P Lending concorrono alla formazione del reddito imponibile IRPEF in sede di dichiarazione annuale dei redditi.  

Per quanto concerne gli obblighi di monitoraggio fiscale, tenuto conto che per l’effettuazione degli investimenti in P2P Lending attraverso le predette piattaforme, l’Istante detiene anche dei “conti” all’estero, si ritiene che gli stessi dovranno esse indicati nel quadro RW, indipendentemente dalla circostanza che la piattaforma sia italiana o estera o che il finanziamento sia erogato a soggetti italiani o esteri. 

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L’Agenzia delle Entrate chiarisce i profili elusivi delle operazioni di scissione societaria ed ammette la legittimità delle operazioni di scorporo in passato ritenute elusive

L’Agenzia delle Entrate è spesso chiamata a rispondere a molteplici quesiti formulati dai contribuenti in materia di operazioni straordinarie. 

In particolare, a seguito del provvedimento n. 185630 del 2018, con cui è stato introdotto l’obbligo di pubblicare le risposte ad interpello, sono stati resi noti 112 documenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria in tema di fiscalità delle operazioni straordinarie. 

La gran parte di tali risposte ha riguardato i profili elusivi di tali operazioni, anche alla luce dell’introduzione dell’art. 10-bis nella legge n. 212 del 2000 (cd. Statuto dei diritti del contribuente). 

Tale disposizione normativa, infatti, ha delineato i presupposti necessari ai fini della qualificazione di una operazione abusiva ed ha precisato che il contribuente è libero di scegliere quale regime adottare laddove la legge preveda diverse opzioni comportanti un diverso carico fiscale. 

In altri termini, qualora sussistano più alternative, è ammesso che il contribuente scelga tra gli atti, i fatti e i contratti quelli fiscalmente meno onerosi con il limite del divieto di perseguire vantaggi fiscali indebiti, questi ultimi definiti come i “benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”. 

In considerazione di tale quadro normativo, l’Amministrazione finanziaria ha posto particolare attenzione alla potenziale elusività delle operazioni di scissione societaria, per le quali ai sensi dell’art. 173 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (cd. TUIR) vige il principio di neutralità fiscale con riferimento ai beni della società scissa. In linea generale, pertanto, la predetta operazione non comporta, in capo alla società scissa, il realizzo di plusvalenze o di minusvalenze con riguardo ai beni assegnati al soggetto “avente causa” dell’operazione di scissione (la società beneficiaria). 

Sul punto si rappresenta che già con la risoluzione n. 97/E del 2009 l’Agenzia delle entrate, rispondendo a un’istanza di interpello, ha fornito importanti chiarimenti interpretativi in materia di scissione del compendio immobiliare, volta a creare una o più società da far circolare sotto forma di partecipazioni. 

In quel caso, l’operazione non sarebbe stata posta in essere con l’intento di riorganizzare il complesso aziendale attraverso la creazione di più sistemi in un’ottica di continuità aziendale ed imprenditoriale, ma sembrava costituire solo una fase intermedia di un più complesso disegno unitario finalizzato alla creazione di una o più società “contenitori”, destinate ad accogliere i rami operativi dell’azienda da far circolare, successivamente, sotto forma di partecipazioni. In tal modo, i soci persone fisiche avrebbero potuto beneficiare del meno oneroso regime di tassazione sui capital gains ai sensi dell’art. 68 del TUIR rispetto a quello ordinario di tassazione sulla cessione di azienda o ramo d’azienda di cui all’art. 86 del TUIR.  

Tuttavia, dall’analisi delle risposte ad interpello più recenti emerge un orientamento meno restrittivo in materia di elusività delle operazioni di scissione. In particolare, è possibile individuare quattro diversi indirizzi: 

(i) con la risposta ad interpello n. 13 del 2019, è stata sancita la legittimità delle operazioni di scissione del comparto immobiliare e successiva cessione delle partecipazioni della scissa. L’Agenzia delle Entrate si è espressa favorevolmente in merito ad una operazione di scissione parziale proporzionale, con la quale la società titolare di immobili e attività produttive trasferiva unicamente gli immobili ad una società neocostituita. A seguito di tale operazione i soci avrebbero ceduto a terzi le partecipazioni della società scissa (che rimaneva titolare del ramo produttivo) e avrebbero mantenuto le partecipazioni nella società beneficiaria immobiliare. 

(ii) con la risposta ad interpello n. 282 del 2021 l’Amministrazione finanziaria ha ammesso la legittimità delle scissioni inverse con scorporo di asset aziendali a favore della controllante, con il fine di separare le attività immobiliari da quelle operative. Si trattava di una scissione societaria a favore dell’unico socio della scissa avente come oggetto di scissione: i) le partecipazioni nelle società del gruppo non relative al core business, ii) tutti i rapporti finanziari di credito e debito con le società partecipate oggetto di scissione, iii) le disponibilità finanziarie eccedenti rispetto a quelle necessarie per sostenere le attività operative e iv) alcune figure professionali di profilo tecnico. L’Agenzia, quindi, contrariamente a quanto sostenuto in passato, ritiene lecita l’operazione sotto ogni aspetto, dichiarando l’assenza di vantaggi fiscali indebiti. 

In tal modo, è stato superato l’orientamento che assimilava tali operazioni ad una distribuzione di dividendi in natura a favore della controllante. 

(iii) con la risposta ad interpello n. 89 del 2021 è ammessa la liceità delle scissioni volte a scorporare il ramo finanziario del patrimonio aziendale. L’Agenzia ha precisato che affinché non siano ravvisabili profili elusivi in un’operazione di scissione, occorre che la scissione non sia, di fatto, volta a surrogare lo scioglimento del vincolo societario da parte dei soci e l’assegnazione agli stessi del patrimonio aziendale imponibile attraverso la formale attribuzione dei relativi beni a società di “mero godimento”, non connotate da alcuna operatività, al solo scopo di rinviare la tassazione delle plusvalenze latenti sui beni trasferiti e/o, come nel caso specifico, delle riserve di utili in capo ai soci, usufruendo del regime di neutralità fiscale. 

Pertanto, l’operazione di scorporo del ramo finanziario non è considerata abusiva purché l’attività di amministrazione della beneficiaria sia condotta con logiche imprenditoriali. 

(iv) con la risposta ad interpello n. 435 del 2021, l’Agenzia delle entrate ha riconosciuto la legittimità delle operazioni di scissione non proporzionali asimmetriche. Si tratta di una operazione volta ad evitare la distribuzione di azioni o quote della società beneficiaria ad uno o più soci della scissa, con il fine di risolvere conflitti tra soci e/o dividere il patrimonio aziendale agevolando il passaggio generazionale. 

Tale operazione non comporterebbe il conseguimento di alcun vantaggio fiscale indebito, risultando un atto fisiologico alla riorganizzazione delle attività facenti capo alla famiglia, al fine di separare il destino imprenditoriale del nucleo familiare riferibile a un socio da quello degli altri soci. 

Alla luce dei recenti orientamenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria emerge un cambio di rotta degli Uffici che ha condotto a ritenere legittime alcune operazioni di scissione in passato ritenute abusive. 

hotel

Le novità introdotte in materia di imposta di soggiorno dall’art. 5 quinquies del D.I. n. 146 del 2021 per i gestori delle strutture alberghiere volte ad interpretare il ruolo di questi ultimi

La disposizione di cui all’articolo 180, comma 3, D.l. n. 34 del 2020, secondo cui l’albergatore è responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, è applicabile anche ai casi verificatisi prima della data di entrata in vigore del decreto “Rilancio”, ossia il 19 maggio 2020.  

Così prevede l’articolo 5-quinquies del D.l. n. 146 del 2021, che ha chiarito i limiti temporali del comma 1-ter dell’articolo 4 del D.lgs. n. 23 del 2011, ai sensi del quale si attribuisce la qualifica di responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno al gestore della struttura ricettiva con diritto di rivalsa sui soggetti passivi.  

Di conseguenza, il gestore della struttura ricettizia non risulta più essere completamente estraneo al rapporto di imposta che in origine si veniva ad instaurare esclusivamente tra il turista ed il comune. 

Precedentemente, infatti, il gestore risultava essere un “agente contabile”, incaricato di maneggiare denaro pubblico e pertanto denunciabile per peculato in caso di mancato versamento del tributo nelle casse dell’ente impositore (Cassazione penale n.32058 del 2018). 

Grazie al D.l. n. 146 del 2021, in quanto norma di interpretazione autentica, i gestori delle strutture alberghiere assurgono al rango di sostituti di imposta, anche relativamente ai fatti accaduti prima del 19 maggio 2020, data di entrata in vigore del decreto “Rilancio”.  

Infatti, se da un lato vantano il diritto di rivalsa dell’imposta di soggiorno nei riguardi del villeggiante, dall’altro i gestori delle strutture alberghiere risultano obbligati a versare l’imposta anche nel caso in cui il turista non abbia precedentemente pagato la somma corrispondente. 

Tuttavia, devono comunque essere prese in considerazione le sentenze n.30227 del 2020 e n.36317 del 2020 della Cassazione penale.  

I giudici della Suprema Corte hanno non solo affermato la sussistenza del reato di peculato, ma hanno anche escluso la retroattività della depenalizzazione, ritenendo modificata in maniera radicale la struttura della fattispecie di illecito.  

Appare evidente come la norma di interpretazione autentica, contenuta nell’articolo 5 quinquies del Dl 146/2021 dovrebbe servire proprio a superare questo orientamento giurisprudenziale, garantendo un’efficacia retroattiva della depenalizzazione della novella del 2020. 

Pertanto, nell’ipotesi in cui vi sia il mancato pagamento della tassa di soggiorno, il comune può rifarsi anche solo nei confronti dell’esercente, essendo adesso quest’ultimo qualificato direttamente come debitore dell’ente locale, richiedendo non solo il pagamento del tributo, ma anche una sanzione del 30% ex articolo 13 del D. lgs. n.471 del 1997. 

È comunque necessario precisare come alcune sezioni della Corte dei Conti (Sicilia e Toscana) continuino a ritenere che dal punto di vista della responsabilità fiscale del gestore la situazione sia rimasta immutata. 

A tal proposito, anche il dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia durante l’evento “Telefisco” del Sole 24 Ore ha confermato questa linea interpretativa, discostandosi da quanto precedentemente statuito dalla Cassazione Penale. 

Secondo il Ministero, il gestore della struttura alberghiera deve in un primo momento provvedere all’incasso della tassa di soggiorno, accantonandola, e successivamente deve trasmetterla al Comune. Il gestore non assume così la veste di sostituto di imposta, bensì quella di responsabile del pagamento, un agente contabile che maneggia denaro pubblico ed è tenuto a riversarlo nelle casse dell’ente pubblico. 

Tuttavia, non può non considerarsi come la qualifica di agente contabile attribuita al gestore della struttura alberghiera, inteso come colui che opera nella gestione di pubblico denaro, non possa più essere ritenuta vigente all’interno dell’ordinamento, alla luce dell’articolo 5 comma quinquies del D.l. n. 146 del 2021. 

 

exeport

L’Agenzia delle Entrate mette in guardia i fornitori dalle operazioni commerciali poste in essere con soggetti che non sono realmente dei veri esportatori abituali

L’Agenzia delle Entrate, in seguito allo svolgimento di appositi controlli, sta inviando delle comunicazioni ad imprese fornitrici, comunicando loro di aver posto in essere operazioni commerciali con falsi soggetti esportatori abituali. 

Al riguardo infatti, l’art. 8, comma 1, lettera c) del D.p.r. n. 633 del 1972, stabilisce che, impiegando lo strumento della lettera d’intento, l’esportatore abituale può richiedere ai propri fornitori di emettere fattura senza applicazione dell’Iva, osservando il limite del proprio plafond.  

La lettera d’intento ha la specifica finalità di mettere in evidenza la volontà del soggetto esportatore abituale di effettuare acquisti o attività di importazione usufruendo della facoltà riconosciutagli dal legislatore di non applicare l’imposta in questione. 

In particolare, mediante l’utilizzazione di warning letters, l’Agenzia delle Entrate esorta le imprese fornitrici a controllare con estrema attenzione – non solo dal punto di vista formale ma anche da un punto di vista sostanziale – la presenza dei requisiti di esportatore abituale della controparte, sia all’inizio sia durante lo svolgimento del rapporto.  

Una volta ricevuta una warning letter da parte dell’Agenzia delle Entrate, il fornitore deve interrompere le attività commerciali con il presunto falso esportatore abituale ed ha l’obbligo di non emettere più fatture nei confronti nel medesimo soggetto senza che venga applicata l’Iva, come previsto dall’art. 8, comma 1, lettera c), D.p.r. n. 633 del 1972. 

In termini generali, per usufruire della disciplina dell’esportatore abituale, un soggetto deve munirsi di una approfondita documentazione, da presentare all’impresa fornitrice, contenente: 

  • la comunicazione preventiva ed effettiva della dichiarazione trasmessa all’Agenzia delle Entrate, corredata dalla ricevuta di trasmissione, della dichiarazione di intenti. Si tratta di un requisito indispensabile anche per l’emissione della fattura; 
  • l’effettiva iscrizione al Vies (Vat Information Exchange System), finalizzata ad appurare che il soggetto ha effettuato operazioni all’estero; 
  • l’osservanza degli obblighi contabili e fiscali; 
  • l’effettivo raggio di azione del cliente, con speciale riguardo rispetto alle attività effettuate all’estero.  

In sostanza, l’impresa fornitrice, prima di svolgere qualsiasi operazione commerciale con un soggetto qualificabile come esportatore abituale, ha l’onere di verificare la sussistenza dei requisiti in capo al cliente con cui si pongono in essere operazioni commerciali.  Una volta ricevuta una warning letter da parte dell’Agenzia delle Entrate, la società fornitrice deve compiere un’attenta analisi di tutte le operazioni poste in essere nel passato con il soggetto attenzionato nella lettera.  

Nella specifica ipotesi in cui dovessero emergere dei profili di criticità, il fornitore dovrà sanare la propria posizione impiegando lo strumento del ravvedimento operoso. Inoltre, è necessario aggiungere che, mediante lo strumento del ravvedimento, l’impresa fornitrice potrà usufruire della causa di non punibilità espressamente prevista dall’art. 13, comma 2 del Dlgs 74/2000 per il reato di infedele dichiarazione. 

Sul punto, va evidenziato che è costante la giurisprudenza della Corte di Cassazione nel ritenere che in capo all’impresa fornitrice gravi l’onere di provare l’adozione di misure ragionevoli, volte a garantire l’esclusione della stessa da eventuali frodi con il falso esportatore abituale (n. 176 del 2015, n. 4593 del 2015, n. 19898 del 2016, n. 14936 del 2018, n. 1988 del 2019).  

Qualora risultasse che, con preventivi controlli, il fornitore avrebbe potuto riscontrare, l’intento fraudolento della controparte, questi sarà obbligato a pagare l’Iva non presente nelle precedenti fatture insieme alle sanzioni. Se dalla somma dei due elementi dovesse risultare il superamento delle soglie penali, il soggetto incorrerebbe nella fattispecie penale di infedele dichiarazione, ex articolo 4 del Dlgs 74/2020. 

contract

La Suprema Corte rivede la disciplina della deducibilità del maxi-canone creando un pericoloso precedente giurisprudenziale

La Suprema Corte torna a pronunciarsi sulla questione della deducibilità del c.d. maxi-canone, pagato dalle imprese per l’attivazione dei leasing finanziari, con un’ordinanza che fa discutere la dottrina, a causa della sua portata innovativa. 

Si tratta della recentissima pronuncia n. 7183 del 15 marzo 2021, con cui la Cassazione afferma che la propria giurisprudenza sul tema sia anacronistica e necessiti di una totale reinterpretazione. 

Le novità dell’ordinanza potrebbero aprire a nuovi scenari, rispetto a comportamenti che sinora sono invece parsi consolidati. All’attivazione dei contratti di leasing, viene consuetudinariamente richiesto un maxi-canone iniziale, di importo maggiore alla rata mensile stabilita dalle parti con il contratto di leasing finanziario. 

La giurisprudenza della Corte Suprema aveva sempre ritenuto che la contabilizzazione del canone non sarebbe dovuta avvenire nell’esercizio di pagamento del maxi-canone, ma nel corso dell’intero contratto di leasing. 

L’ordinanza del 15 marzo 2021, invece, ribalta la precedente interpretazione della Corte, modificandone radicalmente il punto di vista.  

Secondo la Corte, infatti, la disciplina del leasing finanziario deve considerarsi completamente modificata sia sul piano giuridico (con la legge n. 549/1995, Legge Finanziaria per il 1996, che ha inserito la materia nel corpo dell’art. 102 del TUIR), che su quello contabile. 

In particolare, per quanto riguarda gli aspetti contabili dell’istituto, la medesima ordinanza evidenzia come la rilevazione del leasing finanziario “non viene più effettuata in base al cd. metodo patrimoniale, basato sulla forma giuridica del contratto, ma con il cd. metodo finanziario, previsto dal principio contabile internazionale IAS 17, che riflette la sostanza economica dell’operazione”. 

Dunque, la Suprema Corte ipotizza che il c.d. maxi-canone, corrisposto con il pagamento della prima rata, vada contabilizzato interamente nell’esercizio di competenza, che coinciderebbe, con l’esercizio in cui è avvenuto, di fatto, il suo pagamento. 

La pronuncia, che ribalta il precedente orientamento della giurisprudenza di vertice,  lascia perplessi gli operatori del settore, in quanto sembra non tener conto del fatto che la Legge Finanziaria per il 1996, nel riformare la disciplina del leasing finanziario, si preoccupa di disciplinare la sola posizione del soggetto concedente, come si deduce dalla norma stessa, che fa riferimento ai soli beni ”concessi” in locazione finanziaria. 

La posizione del soggetto fruitore non viene in alcun modo modificata dalla norma in parola, dal momento che non esistono norme fiscali che disciplinano la locazione finanziaria, dal punto di vista del soggetto utilizzatore, se non quelle civilistiche riguardanti la durata minima del contratto di locazione. 

Per i soggetti utilizzatori, dunque, continua a valere il principio di competenza economica stabilito dall’art. 109 del TUIR, che direttamente rimanda all’art. 2423-bis c.c. secondo cui gli oneri dell’esercizio vanno imputati “indipendentemente dalla data del pagamento”, come precedentemente previsto dalla stessa Corte ed in aderenza a quanto previsto dai principi contabili nazionali. 

L’OIC 12, app. A), infatti, prevede che, laddove il contratto di leasing comporti il pagamento di un maxi-canone iniziale, solo la parte del maxi-canone di competenza (economica) dell’esercizio dovrebbe essere rilevata tra i costi, mentre la parte di costo non di competenza dell’esercizio andrebbe rinviata agli esercizi successivi. 

Di conseguenza, il precedente orientamento della Corte sembra essere più aderente al dettato della norma, che non consente all’imprenditore di computare tra i costi dell’esercizio il canone iniziale del contratto di leasing, ma ne prevede la ripartizione per tutta la durata del contratto di locazione finanziaria (Cass. n. 7209/1997; Cass. n. 10147/1999). 

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L’imponibilità dell’operazione, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, è connessa alla sussistenza del presupposto territoriale

La Cassazione, con la sentenza 8175 del 24 marzo 2021, fornisce chiarimenti sul tema della tassazione delle donazioni indirette. 

In particolare, la vicenda sottoposta al giudizio della Corte trae origine da un atto di trasferimento di una somma di denaro in un conto cointestato, configurando in tal modo una forma di donazione indiretta. 

I Giudici hanno ritenuto che si potesse qualificare come un atto di liberalità in quanto le somme oggetto di trasferimento appartenevano solo ad uno dei cointestatari prima dell’accreditamento, realizzando pertanto il presupposto per l’applicazione dell’imposta sulle donazioni.  La sentenza chiarisce che il tributo è applicabile in Italia solo nel caso in cui il bene oggetto di donazione sia “esistente sul territorio italiano”. 

Nel caso di specie, si trattava di una liberalità indiretta realizzata mediante bonifico bancario disposto da un soggetto svizzero ad un soggetto fiscalmente residente in Italia. 

Tale circostanza, dunque, avrebbe escluso la tassabilità di somme di denaro erogate a titolo di liberalità da un soggetto fiscalmente residente all’estero a favore di un beneficiario fiscalmente residente in Italia. 

Dall’iter motivazionale della Corte emerge che il denaro detenuto in un conto svizzero e trasferito, mediante bonifico presso una filiale italiana, non può essere considerato come bene “esistente in Italia”.  

La pronuncia seppur nel caso di specie esclude la tassabilità dell’operazione, induce ad importanti riflessioni.  

Invero, sembra opportuno precisare come la Corte sia pervenuta a tale soluzione interpretativa sulla base del fatto che nel caso di specie non si fosse configurato il presupposto territoriale dell’imposta. 

In tal modo viene indirettamente sancito il principio secondo cui un trasferimento di denaro, effettuato mediante bonifico bancario su conto cointestato, configura il presupposto per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni. 

In altri termini, nel caso di specie l’operazione viene esclusa dalla tassazione per mancanza del requisito della collocazione del bene sul territorio nazionale, risultando al contrario imponibile in Italia in presenza del suddetto requisito. 

Sul punto occorre precisare che ai sensi dell’art. 2 del D.p.r. n. 131/1986 gli atti formati all’estero che comportano un trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di altri diritti reali, anche di garanzia, su beni immobili o azienda esistenti nel territorio dello Stato devono essere registrati e assoggettati al pagamento dell’imposta di registro. 

In applicazione di tale disposizione rilevano, dunque, ai fini dell’imposta di registro e, conseguentemente, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle donazioni, solo gli atti formati all’estero che hanno ad oggetto beni immobili o aziende esistenti sul territorio dello Stato 

Al fine di evitare che atti formati all’estero, aventi ad oggetto beni diversi dagli immobili e dalle aziende, eludessero l’obbligo di registrazione ai fini dell’imposta sulla donazione con la L. n. 342/2000, art. 69, c. 1, lett. n), è stato inserito, dopo il comma 1, art. 55 del T.U.S., il c. 1-bis ove è stabilito che, ai finii dell’imposta sulla donazione, ”sono soggetti a registrazione in termine fisso anche gli atti aventi ad oggetto donazioni, dirette o indirette, formati all’estero nei confronti di beneficiati residenti nello Stato”. 

In tal modo, il Legislatore ha inteso affermare l’obbligo della registrazione anche per gli atti donazione “firmati all’estero”, aventi ad oggetto beni diversi da immobili ed aziende esistenti nel territorio dello Stato 

In definitiva, ai fini dell’imposta sulle donazioni devono essere assoggettati a registrazione in termine fisso anche gli atti formati all’estero aventi ad oggetto beni diversi da immobili e aziende esistenti nel territorio dello Stato, sempreché il donante sia residente nello Stato, ovvero nel caso in cui il donante sia non residente, quando i beni siano “esistenti” nel territorio dello Stato.  

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