contratto

La società che si avvale del contratto di somministrazione irregolare di manodopera non ha il diritto alla detrazione dei relativi costi ai fini dell’imposta sul valore aggiunto

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45114 depositata il 28 novembre 2022, ha affermato il principio di diritto secondo il quale l’operazione giuridicamente inesistente, nel caso in cui nasconda un contratto nullo, determina la non detraibilità del costo, in quanto sprovvisto dei requisiti di certezza e determinatezza.  

Nel caso di specie veniva contestato al legale rappresentante di una società il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti. Secondo l’impianto accusatorio, era stato dedotto il costo derivante da un contratto di appalto che in realtà mascherava una illecita somministrazione di personale, dando luogo ad una simulazione diretta relativa, volta a nascondere la stipulazione di un contratto affetto da nullità.  

In entrambi i due primi gradi di giudizio era stata confermata la responsabilità dell’amministratore, il quale, ricorrendo in Cassazione, lamentava una non corretta applicazione della norma, in quanto la società non avrebbe detratto l’imposta sul valore aggiunto, poiché era stato applicato il regime del reverse charge ed il costo, essendo stato sostenuto, era deducibile. 

La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, precisato come rappresentino fatture per operazioni inesistenti anche quelle relative al compimento di un negozio giuridico apparente, diverso da quello realmente intercorso tra le parti.  

Inoltre, sempre secondo i giudici di legittimità, costituirebbe oggetto della sanzione penale ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale. 

Pertanto, è necessario che il documento fiscale contenga una rappresentazione precisa, puntuale e veritiera degli aspetti fiscalmente rilevanti, con la conseguenza che l’inesistenza giuridica si verifica ogni volta in cui si palesi una divergenza tra realtà e rappresentazione, avendo riguardo alla natura della prestazione. Infatti, le fatture relative a un contratto di appalto aventi esclusivamente la funzione di nascondere un’illecita somministrazione di manodopera afferiscono ad un negozio giuridico differente rispetto a quello intercorso tra le parti ed hanno significative conseguenze fiscali. Nel caso di specie, il contratto di somministrazione di manodopera celato dietro la veste giuridica dell’appalto consente illegittimamente la detraibilità dell’Iva e la deduzione dei relativi costi ai fini Irap. Oltretutto, l’irregolare contratto di somministrazione di manodopera, in quanto viziato da nullità, determina costi non quantificabili e comunque diversi da quelli del contratto di appalto di servizi. 

Secondo la Corte di Cassazione dalla nullità del contratto consegue la mancanza di certezza e di determinatezza dei costi e quindi l’indeducibilità ai fini delle imposte sui redditi. 

Seppur in maniera indiretta, la decisione pare confermare il principio secondo cui, ai fini della rilevanza penale, l’inesistenza giuridica della fattura presuppone un differente trattamento fiscale della tipologia contrattuale mascherata.  

A conferma di ciò, si viene a consolidare il principio per cui l’oggetto della sanzione prevista dall’art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000 è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, tenuto conto dello speciale coefficiente di insidiosità che si connette all’utilizzazione di una falsa fattura. 

Pertanto, la fattura deve contenere una rappresentazione veritiera di tutti gli elementi in grado di incidere su aspetti fiscalmente rilevanti, assumendo importanza anche l’inesistenza giuridica, la quale si verifica ogniqualvolta la divergenza tra realtà e rappresentazione riguardi la natura della prestazione documentata, determinandosi in questo modo una alterazione del contenuto del documento contabile. 

law

Il nuovo comma 5-bis dell’articolo 7, D. Lgs. 546/1992, introdotto dalla L. 130/2022 sancendo definitivamente in capo all’Amministrazione finanziaria l’onere probatorio delle violazioni contestate all’interno dell’atto impugnato

Un’importante novità apportata dalla riforma del processo tributario, contenuta nella Legge 130/2022 è contenuta all’interno del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D.lgs. 546/1992, dove si afferma che “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”. 

La norma rappresenta l’introduzione nel processo tributario di una regola finalizzata a dirimere tutte le questioni inerenti al corretto riparto dell’onere probatori. In questo modo viene in via definitiva superato il disposto dell’art. 2698 del codice civile, evitando una impropria trasposizione in materia tributaria di regole privatistiche. La scelta fatta attraverso l’introduzione del nuovo comma 5-bis risulta coerente con il fatto che nel giudizio tributario in realtà l’attore è sempre l’amministrazione, mentre il contribuente si limita a reagire. 

In base alla nuova regola, dunque, è l’Amministrazione Finanziaria che deve provare in giudizio le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, risultando irrilevante la circostanza che si tratti di costi nel regime di impresa oppure di fattispecie agevolative.  

Per quanto concerne i costi d’impresa, uno degli effetti della nuova norma è rappresentato dall’impossibilità di sostenere che l’onere di provare la sussistenza delle componenti del reddito e dei requisiti di certezza e determinabilità delle stesse gravi sull’Amministrazione Finanziaria per quelle positive e sul contribuente per quelle negative. Tale impostazione veniva in maniera impropria fatta derivare da un’erronea interpretazione dell’art. 2697 del codice civile, assimilando la deduzione di un costo come fatto costitutivo del diritto alla sua deduzione, non prendendo in considerazione che la determinazione del reddito d’impresa è un valore netto, dato dalla contrapposizione di componenti passivi e negativi. Chiaramente, il reddito d’impresa non è composto solo da componenti positivi, non potendo rappresentare la deduzione di un componente negativo di reddito una norma di favore, assimilabile ad un diritto attribuito al contribuente.   

Infatti, la deduzione di un costo rappresenta un passaggio necessario ai fini della rappresentazione unitaria del risultato imponibile alla specifica fonte produttiva. 

Di conseguenza, l’introduzione della nuova disposizione sull’onere della prova introdotta dalla L. 130/2022 consente di affermare senza alcun dubbio che anche per i componenti  

negativi di reddito l’onere probatorio non può che gravare sull’Amministrazione finanziaria.  

Inoltre, bisogna specificare come tale principio non vale solo per i costi d’impresa.  

L’evidente generalità della disposizione non consente di effettuare alcuna distinzione tra violazioni mosse dall’Ufficio che derivano da contestazioni di infedeltà del reddito dichiarato e violazioni che, invece, scaturiscono da una agevolazione fiscale recuperata: in entrambe le ipotesi la parte su cui graverà l’onere probatorio sarà sempre il Fisco. L’unica espressa eccezione riguarda le liti da rimborso, rispetto ai quali sarà il contribuente a dover fornire la prova. 

L’onere probatorio grava sull’Amministrazione finanziaria anche in materia di crediti d’imposta ed agevolazioni. Nello specifico, l’Agenzia dovrà esperire un’istruttoria precisa, puntuale e concreta finalizzata alla verifica della sussistenza dei requisiti di legge, non potendosi limitare a delle mere contestazioni generiche.  

Gli elementi di prova acquisti mediante l’istruttoria devono essere puntualmente indicati all’interno dell’atto impositivo, verificandosi in questo modo una completa sovrapposizione tra la prova procedimentale e la prova processuale. 

tax

La circolare 11/E del 13 gennaio 2023 dell’Agenzia delle Entrate chiarisce i commi da 153 a 159 della Legge di Bilancio relativi alla definizione agevolata delle somme dovute a seguito del controllo automatizzato delle dichiarazioni.

Con la circolare CM 1/E del 13 gennaio 2023, l’Agenzia delle Entrate, nell’illustrare le novità introdotte dalla Legge 197/2022 (art.1, commi da 153 a 159) (cd. Legge di Bilancio), fornisce i primi chiarimenti sulla definizione agevolata delle somme dovute a seguito del controllo automatizzato delle dichiarazioni per i periodi di imposta 2019, 2020 e 2021, riducendo gli oneri a carico dei contribuenti ed estendendo l’ampiezza dei piani di rateazione relativi a debiti di importo ridotto. 

In particolare si tratta della riduzione al 3% (rispetto al 10%) delle sanzioni dovute sulle imposte non versate o versate in ritardo, a seguito di controlli automatizzati, finalizzati a correggere gli errori materiali e di calcolo nella compilazione delle dichiarazioni. 

Nella circolare viene chiarito che rientrano nella definizione agevolata gli avvisi bonari relativi alle dichiarazioni per i periodi d’imposta 2019, 2020 e 2021 aventi ad oggetto: 

  1. a) comunicazioni già recapitate per cui, al 1° gennaio 2023, il termine di pagamento dell’intero importo o della prima rata (30 giorni dalla comunicazione o 90 giorni in caso di avviso telematico) non è ancora scaduto;
  2. b) comunicazioni recapitate dopo il 1° gennaio 2023.

La definizione agevolata riguarda esclusivamente la sanzione e si perfeziona con il versamento dell’importo rideterminato con le sanzioni al 3% entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione originaria (90 nel caso di avviso telematico) o definitiva con rideterminazione degli esiti, indicando nel modello F24, il codice tributo 9001, l’anno di riferimento, e il codice atto relativo alla comunicazione. 

Il beneficio si conserva altresì in caso di lieve inadempimento ai sensi dell’art.15-ter DPR 602/1973, ossia in caso di ritardo nel versamento delle somme dovute o della prima rata, non superiore a 7 giorni; mancato versamento delle somme dovute o di una rata, per una frazione non superiore al 3% e, in ogni caso, a 10.000 euro; ritardo nel versamento di una rata diversa dalla prima entro il termine di versamento della rata successiva). 

Il comma 155 della Legge di Bilancio prevede inoltre che la definizione agevolata con riferimento gli avvisi bonari riferiti a qualsiasi periodo d’imposta, per cui alla data del 1° gennaio 2023 sia regolarmente in corso un pagamento rateale. 

In tal caso, la definizione riguarda le rate in scadenza al 1° gennaio 2023 e l’agevolazione consiste nella rideterminazione delle sanzioni al 3% della parte di imposta (non versata o versata in ritardo) che residua ancora da pagare, considerati i versamenti rateali già eseguiti fino al 31 dicembre 2022. 

Ancora, è necessario specificare che, affinché il contribuente possa beneficiare della definizione agevolata nell’ipotesi suddetta, il pagamento rateale delle somme dovute prosegua senza soluzione di continuità, rispettando le scadenze previste dall’originario piano di rateazione. In caso di mancato pagamento, anche parziale, alle prescritte scadenze, tale da determinare la decadenza dalla rateazione, la definizione agevolata non produce alcun effetto e torneranno ad essere applicate le ordinarie disposizioni in materia di sanzioni e riscossione. 

L’Agenzia chiarisce, inoltre che la modifica operata dalla legge di Bilancio (art. 1 comma 159) all’art. 3-bis, co. 1, del d.lgs. 462/1997, che ha elevato da 8 a 20 il numero massimo di rate possibili, si applica, oltre che alle rateazioni non ancora iniziate, anche a tutte le rateazioni in corso al 1° gennaio 2023 e riguarda anche i piani relativi a debiti di importo non superiore a 5000 euro. Di conseguenza, tutti i piani rateali attualmente in corso relativi a debiti di importo non superiori a 5000 euro possono essere estesi fino ad un massimo di venti rate trimestrali. 

L’algoritmo antievasione consentirà di stilare apposite liste di contribuenti a maggior rischio di evasione da diramare alle strutture periferiche dell’Agenzia delle Entrate

In attuazione di quanto previsto dalla legge di bilancio per il 2020 (articolo 1, commi da 681 a 686, della legge 27 dicembre 2019, n. 160) è stato autorizzato con decreto di attuazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze l’utilizzo del software di Verifica dei rapporti finanziari (di seguito anche “VeRa”) che attraverso un algoritmo permetterà di scovare eventuali evasori. 

I controlli avverranno con riguardo ai comportamenti fraudolenti ritenuti maggiormente lesivi dell’interesse fiscale dello Stato e riguarderanno frodi, abuso del diritto, false compensazioni, nonché l’indebita fruizione dei sostegni erogati durante la pandemia da Covid-19.  

Con la  circolare n. 21/E del 20 giugno 2022, l’Agenzia delle Entrate spiega il funzionamento di tale Software e precisa, in particolare, che lo stesso effettua un controllo di tipo incrociato sui dati provenienti da conti corrente, carte, patrimonio (immobiliare e mobiliare), sulla base dei dati a disposizione dell’Anagrafe Tributaria, nonché delle dichiarazioni dei contribuenti. 

A seguito dell’analisi compiuta dal software i contribuenti saranno invitati dall’Amministrazione finanziaria, tramite comunicazione, a fornire spiegazione circa le difformità tra i dati dichiarati e quelli emersi.
Tuttavia, si precisa come le liste selettive di contribuenti a rischio che verranno predisposte dal software, indirizzate alle Direzioni regionali e provinciale, consentiranno di procedere con l’ordinaria attività di controllo da parte dei funzionari e della Guardia di Finanza nei confronti delle posizioni a più elevato rischio di evasione.  

In considerazione della rilevanza e sensibilità dei dati ricavati, l’accesso alle informazioni tracciate dal software sarà consentito soltanto al personale autorizzato.  Infatti, proprio in ragione del contenuto delle indagini compiute da VeRa, il decreto ha stabilito, tenendo conto del parere del Garante delle privacy, lo schema di conservazione dei dati ed i relativi tempi di conservazione, analisi e controllo.  

Sul punto occorre precisare che il legislatore è intervenuto con un interessante elemento di novità riguardante l’anonimizzazione dei dati raccolti. Le eventuali anomalie riscontrate saranno associate ad un codice, senza svelare il nome del contribuente che potrà essere reso visibile soltanto in una fase successiva alla verifica. 

Il decreto ha fissato il termine per la conservazione dei dati anonimizzati al secondo anno successivo a quello in cui “matura la decadenza della potestà impositiva” e comunque fino alla chiusura di eventuali contenziosi. 

Sempre il provvedimento in parola ha previsto diversi momenti in cui il contribuente potrà richiedere l’accesso ai dati: 

  • dalla ricezione della lettera di compliance; 
  • dalla data di consegna del processo verbale di contestazione (PVC), della notifica dell’atto istruttorio o dell’atto impositivo in caso di contribuenti sottoposti a controllo. 

In ogni caso, sarà possibile richiedere l’accesso ai suddetti dati dal giorno successivo a quello in cui matura la decadenza del potere di accertamento per i contribuenti che non fossero stati interessati dagli atti dei due punti precedenti. È ovviamente fatta salva la possibilità per il contribuente di richiedere la rettifica dei dati personali non esatti. 

Il funzionamento del sistema consentirà di porre le basi per l’interoperabilità delle banche dati, prevista per l’attuazione della delega fiscale.  

Per maggiore chiarezza, si attende la pubblicazione del decreto in Gazzetta ufficiale. 

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Il provvedimento 143438/22 dell’Agenzia delle Entrate chiarisce le modalità per la compilazione e l’invio dell’autocertificazione prevista per i cd. Aiuti Covid

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato il modello da utilizzare e le istruzioni da seguire (provv. 143438/2022) per la compilazione dell’autodichiarazione “Aiuti di Stato” sciogliendo i nodi relativi alla cumulabilità e alternatività delle sezioni 3.1 e 3.12 del Temporary Framework (D.l. 22 marzo 2021, n. 41). Facendo chiarezza, la sezione 3.1 è rubricata “aiuti di importo limitato” e riguarda gli aiuti concessi sottoforma di sovvenzioni dirette, anticipi, rimborsi e agevolazioni fiscali legate all’emergenza Covid-19.

La sezione 3.12 relativa agli “aiuti sotto forma di sostegno a costi fissi non coperti” è, invece, categoria residuale, riferita ad ulteriori aiuti di Stato ammissibili sempre in riferimento alla crisi pandemica.Con il provvedimento emanato si chiarisce come tutti i contribuenti beneficiari degli aiuti saranno obbligati alla verifica e alla successiva dichiarazione, con atto notorio, del rispetto dei massimali previsti dalla disciplina sugli aiuti, avuto riguardo ai limiti previsti al 21 gennaio 2021 al 31 dicembre 2021, dalle sezioni 3.1 e 3.12, relativi all’ importo dell’agevolazione richiesto ai sensi della Sezione 3.12, il quale non deve essere superiore al 70 per cento dei costi fissi non coperti sostenuti nel periodo in cui spetta il beneficio (la percentuale arriva al 90 per cento per le micro e piccole imprese), nonché al calo subito che deve essere pari, almeno, al 30 per cento dell’ammontare complessivo del fatturato e dei corrispettivi

registrati nel periodo di riferimento rilevante per beneficiare della misura, rispetto al corrispondente periodo del 2019.

Il provvedimento stabilisce, peraltro, come gli operatori economici che abbiano fruito degli aiuti di cui all’art. 1, co. 13 del 41/2021 (Contributo a fondo perduto in favore degli operatori economici e proroga dei termini per precompilata IVA), debbano presentare la dichiarazione in via telematica utilizzando il modello dell’Agenzia a partire dal 28 aprile 2022 fino al 30 giugno p.v.

Variano, invece, seppure marginalmente gli obblighi previsti per coloro che abbiano fruito della definizione agevolata delle somme contenute negli avvisi bonari. Invero pur restando il termine fissato al 30 giugno, qualora l’avviso bonario sia successivo a tale data, dovranno calcolarsi 60 giorni dal pagamento delle somme dovute o della prima rata. Si precisa come eventuali omissioni o dichiarazioni non veritiere comporteranno sanzioni amministrative e penali.

Lo stesso provvedimento delle entrate rimanda poi ad una serie di soggetti esentati dall’invio dell’autocertificazione. Si tratta di coloro che non abbiano usufruito delle misure di cui all’art. 1, co. 13, seppure riceventi gli aiuti cui alle sezioni 3.1 e 3.12 del Temporary Framework, nonché dei soggetti che abbiano già reso dichiarazione sostitutiva per accedere ad alcune misure a condizione che il beneficiario non abbia fruito di altri aiuti tra quelli di cui all’art.1, co.13. Si badi come, ai fini della dichiarazione devono indicarsi tutti gli aiuti rientranti nelle sezioni succitate e nell’art.1, co. 13 compresi quelli non fiscali e non erariali.

Ancora, degno di nota è il metodo di calcolo previsto per i massimali. In particolare, per il monitoraggio dei sostegni deve tenersi conto delle relazioni di controllo, le quali rilevano al fine della definizione della qualifica di “impresa unica” per la quale deve farsi riferimento alla definizione europea di cui tenere conto ai soli fini del calcolo dei massimali, non anche per fruire della sezione 3.12: gli importi che eccedono i massimali devono essere restituiti all’Agenzia delle Entrate volontariamente o, in alternativa possono scalarsi dagli aiuti successivi.

Si chiarisce, da ultimo come i massimali, di cui alle sezioni 3.1 e 3.12, sono cumulabili. Vale a dire che si potrà raggiungere un importo di 11.8 milioni di euro purché non si riferiscano agli stessi costi ammissibili e siano ricompresi nelle misure di cui all’art.1, co. 13.

Ancora, allocando una quota dell’aiuto in entrambe le sezioni, sempre alla medesima condizione che si tratti di una misura ricompresa nell’art.1, co. 13, il beneficiario potrà fruire alternativamente della sezione 3.1 e 3.12.

In questo modo diviene pienamente operativo l’art. 1 del cd. Decreto Sostegni approvato nel marzo 2021.

società

Le Società Benefit tra crisi pandemica e agevolazioni statali: dalla loro introduzione con legge 28 dicembre 2015 n. 208 (cc. 376-384) al bonus fiscale previsto dall’ Art. 38 D.L. n.34 del 19 maggio 2020 (c.d. Decreto Rilancio)

 

Scade il 15 giugno il termine per richiedere il credito d’ imposta a copertura delle spese di costituzione o trasformazione in Società Benefit previsto dal c.d. Decreto Rilancio.

Introdotte in Italia dalla Legge 28 dicembre 2015 n. 208 (c.d. Legge di Stabilità 2016), le c.d. Società Benefit (SB) rappresentano l’evoluzione del tradizionale concetto di azienda in quanto perseguono, oltre al profitto dei soci, anche una o più finalità di beneficio comune di carattere ambientale e/o sociale.

In particolare, a norma dell’art. 1 comma 377 l. n. 208/2015, possono costituirsi e/o assumere successivamente la qualifica di Società Benefit – mediante apposita modifica dell’atto costitutivo e/o dello statuto secondo le disposizioni proprie di ciascun tipo societario – tutte le società di cui al libro V, titoli V e VI, del Codice Civile, eccezion fatta per le S.r.l. semplificate costituitesi ai sensi dell’art. 2463 bis c.c.

Fermo restando quanto generalmente previsto nel Codice Civile, la società che intende assumere la qualifica di Società Benefit deve necessariamente indicare, nell’ambito del proprio oggetto sociale le finalità specifiche di beneficio comune che intende perseguire sebbene l’individuazione del c.d. scopo benefit sia rimessa all’arbitrio dei soci, il comma 378 lett. a) dell’art. 1 l. n. 208/2015 precisa che il “beneficio comune” deve in ogni caso sostanziarsi nel perseguimento di uno o più effetti positivi o nella riduzione degli effetti negativi per le categorie interessate direttamente e/o indirettamente dall’attività sociale. In quest’ottica, secondo il disposto dell’art. 1 comma 380 n. 208/2015, la Società Benefit deve essere amministrata “in modo da bilanciare l’interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi delle categorie indicate nel comma 376” ovvero persone, comunità, territori, ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse portatori di interesse sui quali l’attività sociale può avere un impatto.

L’organo amministrativo individua il soggetto responsabile a cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento delle finalità di beneficio comune (c.d. benefit officer); l’inosservanza degli obblighi di gestione gravanti su tale soggetto può costituire un inadempimento rilevante in tema di responsabilità.

La Società Benefit è tenuta, poi, a redigere con cadenza annuale una relazione (c.d. di impatto), da allegare al bilancio avente ad oggetto la descrizione degli obiettivi e dei risultati ottenuti nonché degli obiettivi futuri.

Tale relazione consente agli stakeholders e agli organi preposti alle funzioni di controllo ( che nelle società SB vedono ampliate le proprie funzioni e le responsabilità anche in relazione al perseguimento di bilanciamento tra l’interesse dei soci e gli interessi delle categorie coinvolte) di monitorare l’andamento della società nel perseguimento delle finalità di beneficio comune individuate dallo statuto.

Con la grave crisi economica innescata dalla pandemia da Covid-19, si è assistito in Italia ad un significativo aumento delle imprese che hanno scelto di operare o di costituirsi nella forma di una SB. Una delle possibili ragioni alla base di tale successo, potrebbe essere quanto previsto dall’Art. 38 del D.L. n. 34 del 19 maggio 2020 (c.d. Decreto Rilancio) che, nell’ottica di sostenere il rafforzamento del sistema delle SB sul territorio nazionale, ha previsto un contributo sotto forma di credito d’imposta nella misura del 50 % dei costi di costituzione o trasformazione in SB, sostenuti dal 19 luglio 2020 fino al 31 dicembre 2021 ( entro il limite massino di euro diecimila).

Il comma 2-bis dell’art de quo ricomprende tra i suddetti costi:

(i) quelli notarili e di iscrizione nel registro delle imprese

(ii) le spese inerenti l’assistenza professionale e la consulenza sostenute e direttamente destinate alla costituzione o alla trasformazione in SB.

Possono beneficiare della suddetta agevolazione le imprese, di qualunque dimensione, che alla data della presentazione della istanza:

  •  sono costituite, regolarmente iscritte e “attive” al Registro delle imprese;
  • hanno sostenuto spese per la costituzione ovvero per la trasformazione in società benefit tra il 19 luglio 2020 al 31 dicembre 2021;
  • svolgono un’attività economica in Italia disponendo di una sede principale o secondaria;
  • si trovano nel pieno e libero esercizio dei propri diritti e non sono in liquidazione volontaria o sottoposte a procedure concorsuali;
  • non rientrano tra i soggetti nei cui confronti sia stata applicata la sanzione interdittiva di cui all’articolo 9, comma 2, lettera d), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 e successive modificazioni e integrazioni.

Le imprese intendano fruire di tale agevolazione fiscale hanno tempo fino alle ore 12:00 del 15 giugno 2022 per presentare l’istanza resa disponibile sul sito www.mise.gov.it.

welfare

Con la risposta ed interpello n. 265 del 2022 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito la necessità del raggiungimento di risultati a livello aziendale per poter erogare il premio di risultato

Il Premio di Risultato (detto anche Premio di Produzione) rappresenta la quota aggiuntiva alla retribuzione che viene riconosciuta ai dipendenti al raggiungimento di incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione. 

L’art. 1, commi da 182 a 189, della L. 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di Stabilità 2016) ha previsto, a partire dal periodo di imposta 2016, per il lavoratore la possibilità di poter scegliere alternativamente tra vari trattamenti fiscali agevolati. 

  • Una prima modalità di tassazione agevolata consiste nella possibilità per il lavoratore di ricevere il premio in busta paga, di optare per una tassazione agevolata del 10% purché il premio non ecceda €. 3.000 lordi annui e il reddito da lavoro dipendente dell’anno precedente non superi €. 80.000 
  • Il lavoratore ha altrimenti la facoltà di scegliere che il premio venga, qualora espressamente previsto all’interno dell’accordo negoziale (parzialmente o totalmente) convertito in prestazioni di welfare. In tale ipotesi, l’importo non è soggetto ad alcuna tassazione od onere contributivo, né per il dipendente, né per l’azienda. Tuttavia, anche in questo caso è necessario rispettare i limiti di €. 3.000 e €. 80.000 appena analizzati, unicamente superabili ove il dipendente opti per particolari forme di welfare quali l’assistenza sanitaria integrativa e la previdenza complementare.  
  • Infine, è prevista anche un’altra forma di welfare che offre il vantaggio della detassazione totale ma senza le limitazioni viste fin qui: si tratta del Welfare Puro, detto anche Welfare Premiale (o On Top). L’azienda, al raggiungimento di obiettivi prefissati, offre beni, opere o servizi di welfare a tutti o a specifiche categorie di lavoratori in aggiunta (ovvero On Top) alla normale retribuzione. Questo avviene senza la necessità di un accordo territoriale o sindacale di 2⁰ livello (come nei due casi precedenti). 

Al riguardo, nella risposta ad interpello n. 265 del 2022 viene analizzato il caso di un gruppo internazionale guidato da una società capogruppo di diritto inglese, la quale intendeva siglare un accordo integrativo aziendale con le rappresentanze sindacali nell’ambito dei gruppi aziendali, finalizzato all’attribuzione di un premio di risultato per tutti i dipendenti, ricorrendo il raggiungimento di semplici risultati di gruppo e non aziendali.  

Secondo quanto affermato dalla Agenzia delle Entrate, il premio di risultato può essere attribuito e quindi detassato solo se l’incremento di produttività sia stato raggiunto dalla singola azienda, non rilevando il raggiungimento di obiettivi di gruppo 

Ed invero, l’Amministrazione Finanziaria sottolinea come, anche nel caso in cui la contrattazione aziendale preveda l’erogazione del premio, al fine di convertirlo in welfare e conseguentemente detassarlo, solo a condizione di un eventuale raggiungimento di un risultato di gruppo (“obiettivo cancello”), l’incremento di produttività debba comunque essere necessariamente realizzato dalla singola unità aziendale.  

Inoltre, l’Amministrazione Finanziaria rileva come risulti necessario che i criteri e le modalità di attribuzione del premio di risultato siano definiti puntualmente all’interno di un contratto aziendale, garantendo alle parti di poter regolare in maniera condivisa i diversi profili relativi al rapporto di lavoro. Infine, si precisa che laddove dovesse mancare anche solo uno dei requisiti, (l’incremento di produttività della singola azienda ovvero il contratto aziendale che recepisca espressamente l’accordo) il premio aziendale non potrebbe essere né erogato, né pertanto convertito in welfare.

esterometro

Dal 1° luglio 2022, con l’abolizione dell’esterometro, tutti i dati relativi alle operazioni transfrontaliere dovranno transitare dal Sistema di Interscambio

Una delle tante novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2021, modificando l’art. 1 comma 3 e comma 3 bis del D. Lgs. n. 127/2015, è rappresentata dall’impiego, a partire dal 1° luglio 2022, di un unico canale di trasmissione telematico per inviare non solo le fatture elettroniche, ma anche i dati delle operazioni con l’estero, eliminando in tal modo l’obbligo comunicativo specificamente previsto per le operazioni transfrontaliere (cd. esterometro).

Pertanto, a partire da tale data, la trasmissione dei dati della fattura elettronica tramite il Sistema di Interscambio (SDI), già obbligatoria in Italia, diventerà necessaria anche per le fatture attive relative a operazioni transfrontaliere di:

· cessioni di beni;

· prestazioni di servizi effettuate (e ricevute) nei confronti di soggetti al di fuori del territorio dello Stato.

Inoltre, per quanto riguarda le fatture passive ricevute in modalità analogica dai fornitori esteri, il cliente italiano dovrà generare un documento elettronico di tipo “TD17”, “TD18” e “TD19”, da trasmettere al Sistema di Interscambio.

È opportuno ricordare che l’art. 1, comma 3 del D. Lgs. 5 agosto 2015, n. 127, stabiliva, al fine di razionalizzare il procedimento di fatturazione e registrazione, per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti o stabiliti nel territorio dello Stato, e per le relative variazioni, la necessità di emettere esclusivamente fatture elettroniche utilizzando il Sistema di Interscambio.

Tuttavia, sebbene il suddetto comma 3 nella sua versione originaria prevedesse alcune specifiche categorie di soggetti esonerate dall’osservanza della medesima disposizione, con l’entrata in vigore del decreto PNRR 2 (D. L. n. 36/2022) risultano essere obbligati dall’obbligo di fatturazione elettronica:

· i soggetti rientranti nel “regime di vantaggio” di cui all’art. 27, commi 1 e 2, del D. L. 6 luglio 2011, n. 98;

· i soggetti rientranti nel regime forfettario, di cui all’art. 1, commi da 54 a 89, della L. 23 dicembre 2014, n. 190;

· i soggetti passivi che hanno esercitato l’opzione di cui agli artt. 1 e 2 della L. 16 dicembre 1991, n. 398, e che nel periodo d’imposta precedente hanno conseguito dall’esercizio di attività commerciali proventi per un importo non superiore ad euro 65.000.

Più nello specifico, per queste categorie di contribuenti l’emissione della fattura in formato elettronico diventa obbligatoria:

· dal 1° luglio 2022 a condizione che i ricavi o compensi, ragguagliati ad anno, conseguiti nell’anno precedente, siano superiori a 25.000 euro;

· dal 1° gennaio 2024, invece, la fatturazione elettronica sarà obbligatoria anche per i restanti soggetti, cioè quelli che, nell’anno precedente, non hanno superato la soglia di 25.000 euro di ricavi o compensi.

Bisogna precisare come, per emettere le fatture elettroniche non è sufficiente soltanto creare fattura cartacea o in PDF e successivamente spedirla al cliente.

Infatti, risulta necessaria non solo la produzione di una fattura in formato XML, ma anche l’invio della stessa al Sistema di Interscambio – SDI. Attraverso questo sistema saranno effettuati i controlli sul documento e, laddove superati, la fattura sarà consegnata al destinatario a seconda dell’indirizzo telematico – indirizzo PEC o Codice Destinatario – specificato all’interno della fattura.

Il servizio di conservazione sostitutiva delle fatture elettroniche, fornito da operatori privati certificati facilmente individuabili in internet, è di 10 anni.

Si tratta di una speciale procedura di archiviazione che, attraverso l’apposizione di una marca temporale e della firma digitale, contribuisce ad assicurare non solo che l’identità di colui che emette fattura sia nota e accertata, ma anche che i documenti conservino inalterato il loro valore fiscale nel tempo.

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La circolare n. 14/E del 17 maggio 2022 fornisce importanti chiarimenti in materia di credito d’imposta per investimenti in beni strumentali propri

Con la circolare n. 14/E del 17 maggio 2022 l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato un ampio commento alle novità fiscali introdotte dalla L. 30 dicembre 2021, n. 234 (Legge di bilancio 2022) con particolare riguardo ai crediti d’imposta. L’Amministrazione Finanziaria si è concentrata sul credito d’imposta per investimenti in beni strumentali nuovi.  

Questo credito può essere usufruito da tutte le imprese residenti nel territorio dello Stato, incluse le stabili organizzazioni di soggetti non residenti, indipendentemente dalla natura giuridica, dal settore economico di appartenenza, dalla dimensione, dal regime contabile e dal  

sistema di determinazione del reddito ai fini fiscali. 

In tale ambito viene sottolineato che il comma 44 della legge di bilancio 2022 proroga e rimodula la disciplina del credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nuovi, limitatamente ai beni materiali e immateriali funzionali alla trasformazione tecnologica e digitale delle imprese, secondo il modello “Industria 4.0”.   

Il principale chiarimento consiste nel fatto che il massimale di spesa per il tax credit sugli investimenti 4.0 del triennio 2023-2025 si dovrà calcolare su base annuale.  

Più nello specifico, il tetto per i crediti d’imposta per gli acquisti di beni strumentali, che dal tenore letterale delle norme contenute all’interno della legge 30 dicembre 2021, n. 234 sembrerebbe essere limitato a un massimale di 20 milioni di euro per l’intero triennio, viene invece interpretato dall’Amministrazione Finanziaria come tetto annuale.  

Pertanto, i contribuenti avranno a disposizione un credito d’imposta per l’acquisto di beni strumentali non limitato ad un tetto massimo di 20 milioni di euro per l’intero triennio, bensì pari ad un massimo della suddetta cifra per ogni singolo anno che costituisce il triennio di riferimento, per un totale di 60 milioni di euro.  

La stessa Agenzia dell’Entrate illustra l’applicazione di questa interpretazione “estensiva”, contrastante con il dato letterale della norma, specificando come la circolare in esame fornisca dei chiarimenti che “tengono conto della documentazione relativa ai lavori parlamentari, con particolare riguardo alle relazioni illustrativa e tecnica e ai Dossier della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica”.  

Infatti, è proprio all’interno dei documenti preparatori che appare evidente la volontà del legislatore di considerare quel limite per ciascuno degli anni che compongono il triennio di validità della misura. 

È necessario specificare come non subiscono modifiche di alcun tipo le altre previsioni circa le modalità di utilizzo del credito d’imposta in esame, per le quali continuano a trovare applicazione le indicazioni contenute all’interno della circolare n. 19/E del 2021.  

Il contribuente può, quindi, scegliere di utilizzare il credito direttamente in sede di dichiarazione annuale dei redditi, a partire da quella relativa al periodo d’imposta in cui le minusvalenze, perdite e differenziali negativi si considerano realizzati ovvero in compensazione mediante il modello F24, ai sensi dell’articolo 17 del D. Lgs. 9 luglio 1997, n. 241.  

Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate non chiarisce se questa tripartizione riguardante il computo annuale del plafond fino al 2023 debba estendere il proprio campo di applicazione anche a quanto stabilito dal Dl. n. 4 del 2022, dove il legislatore prevede la possibilità di usufruire di un nuovo scaglione di spesa, sempre all’interno del medesimo triennio, compreso trai 10 e i 50 milioni di euro, riguardante investimenti con obiettivi di transizione ecologica da determinare con un futuro decreto ministeriale. 

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Cambiano i termini per pagare gli avvisi bonari inviati dall’Agenzia delle Entrate: fino al prossimo 31 agosto il contribuente avrà a disposizione 60 giorni di tempo, invece dei canonici 30

Con un emendamento al disegno di legge di conversione del decreto Ucraina (D. l. n. 21/2022), approvato in data 9 maggio 2022 dalla Commissione Finanza e Industria del Senato, si stabilisce che per gli avvisi bonari emessi sino al 31 agosto 2022 sono previsti 60 giorni per effettuare il pagamento del dovuto, evitando così l’iscrizione al ruolo.  

Tuttavia, dal 1° settembre 2022, salvo interventi successivi, tornerà operativo il termine di pagamento ordinario pari a 30 giorni. In tal modo, il legislatore modifica fino ad agosto il termine di 30 giorni previsto dall’art. 2, comma 2, D. Lgs. n. 42/1997. Gli avvisi bonari di cui all’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 consistono nelle comunicazioni effettuate dall’Agenzia delle Entrate entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo, con cui si informa il contribuente dello svolgimento di “controlli automatici”, cioè caratterizzati da procedure automatizzate, su tutte le dichiarazioni da lui presentate, finalizzata a rinvenire eventuali inesattezze, derivanti dal confronto dei dati in possesso dell’Amministrazione Finanziaria con la dichiarazione stessa.  

La ratio della disposizione è quella di assicurare il tempo necessario alle famiglie ed alle imprese per versare le somme dovute – in seguito ai controlli automatici – tenendo in considerazione gli effetti negativi determinati dalla pandemia, nonché delle ripercussioni economiche e produttive del conflitto bellico in Ucraina. 

È bene precisare che entro 30 giorni dalla ricezione dell’atto è possibile presentare all’Amministrazione Finanziaria i dati o gli elementi non considerati o erroneamente valutati in fase di liquidazione, ai fini della riduzione della pretesa. 

Tuttavia, bisogna sottolineare come la misura introdotta dall’emendamento del D.L. n. 21/2022 non preveda alcuna proroga del termine per le rateizzazioni delle somme derivanti dai controlli automatizzati.  

Infatti, la norma non prevede il coordinamento con l’articolo 3-bis comma 3 del D. Lgs. n. 462 del 1997. Questa disposizione permette al contribuente di rateizzare le somme dovute in massimo 8 rate trimestrali, di pari importo, ovvero – per importi superiori a 5.000 euro – in un numero massimo di 20 rate trimestrali di pari importo.  

La prima rata dovrà essere corrisposta entro il termine di 30 giorni dal ricevimento della comunicazione. Il mancato pagamento della prima rata ovvero di una delle altre rate comporta la decadenza dal beneficio della rateazione e l’iscrizione a ruolo dei residui importi dovuti a titolo di imposta, interessi e sanzioni in misura piena. La decadenza dal piano rateale è però esclusa (art. 15-ter, D.P.R. 602/1973) in caso di lieve inadempimento dovuto a: 

  • insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3% e, in ogni caso, a 10.000 euro; 
  • tardivo versamento della prima rata, non superiore a sette giorni. 

Tuttavia, il termine di saldo della prima rata, senza le necessarie modifiche, resterebbe di 30 giorni dalla ricezione dell’atto.  

Occorre osservare tuttavia che in tal modo si genererebbe inevitabilmente una differenziazione sulle tempistiche di versamento. Infatti, senza la necessaria correzione i termini di pagamento dello stesso atto diverrebbero differenziati:  

  • 60 giorni nel caso in cui in unica soluzione; 
  • 30 giorni, la prima rata, in caso di dilazione. È auspicabile quindi un livellamento dei termini, riconoscendo una maggior estensione temporale sia nell’ipotesi del pagamento in un’unica soluzione che nel caso della rateazione. 

Dunque, per il contribuente sussiste la possibilità di mantenere la forma della rateizzazione, perdendo però la possibilità di beneficiare della proroga di 60 giorni. 

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